La diseguaglianza di reddito aumenta sempre di più in Italia, mentre in Francia diminuisce23/11/2016 Un indicatore della diseguaglianza è il cosiddetto indicatore di Gini, che misura quanto si allontana la distribuzione del reddito di un Paese rispetto ad una teorica distribuzione equa. Fu concepito dall’italiano Corrado Gini (1884-1965), demografo, sociologo statistico, che sviluppò il coefficiente che porta il suo nome, per misurare un qualsiasi tipo di diseguaglianza. La sua applicazione più caratteristica riguarda lo studio della diseguaglianza dei redditi, il suo valore oscilla tra 1 e 0, nel caso in cui una sola persona accentrasse il 100% del reddito di un Paese il coefficiente di Gini sarebbe 1, se al contrario il reddito fosse distribuito in maniera uguale tra tutti i cittadini il suo valore sarebbe 0. In genere tale coefficiente calcolato in base al reddito disponibile al netto di tasse ed altre transazioni. Un’analisi pubblicata da Truenumbers afferma che in Francia l’indice di Gini è costantemente aumentato dall’inizio della crisi del 2008 (0,289), salendo fino a toccare il massimo nel 2011 (0,306) per poi scendere fino ai minimi del 2013 (0,291). In Francia, dunque, diminuisce la disparità di patrimonio tra le persone e i livelli di oggi sono gli stessi di quelli pre-crisi, come si può notare dal grafico qui sotto. Analizzando inoltre il grafico della Francia si può ragionevolmente affermare che, dopo l’introduzione dell’euro, nel paese si è avuto un aumento dell’indice a partire dal 2002. L’Italia, invece, fa parte del gruppo dei paesi mediterranei, nei quali si evidenziano livelli di disuguaglianza alti. Il valore italiano dell’indice di Gini, riferito al 2013 è di 0,33, come si può notare dal grafico qui sotto riportato, ben al di sopra della Francia e della media europea (0,307) e mai così alto. Era molto basso nel 1992 grazie alla scala mobile. Secondo il dossier “Diseguaglianza economica in Italia e nel Mondo” del 2015, redatto dalla Fondazione David Hume per il Sole 24ore, a partire dai primi anni ’90 le politiche fiscali volte a contenere il debito pubblico, hanno ridotto la progressività del sistema di tassazione, concorrendo al brusco aumento dell’indice di Gini, che poi è schizzato in su nel 2004, segnando infatti un valore prossimo a 0,34, poi diminuisce progressivamente fino al 2008, ma arriva la crisi e dal 2009 torna a crescere fino a 0,33. Da notare che anche per l’Italia, ma in modo più marcato rispetto alla Francia, l’effetto dell’introduzione dell’euro, ha contribuito ad aumentare l’indice e soprattutto ad aggravare la situazione delle famiglie, come si dirà appresso. Sempre in base al dossier della Fondazione Hume è di interesse notare quante siano le famiglie che alla fine del mese hanno problemi a fronteggiare le spese quotidiane, ossia quelle che sono costrette ad usare i risparmi o a contrarre debiti. Il grafico sotto mostra che i valori percentuali di chi usa i risparmi o contrae debiti restano stabili, intorno al 10%, fino ai primi anni 2000, toccando il minimo storico nel 2002. A partire dal 2002, anno in cui inizia la circolazione monetaria dell’euro e la produttività nel nostro paese entra in un periodo di stagnazione, la percentuale delle famiglie che devono utilizzare i risparmi o contrarre debiti comincia a salire. La percentuale di famiglie in difficoltà inizia ad aumentare, quindi, ben prima della crisi del 2007-2013 e, con varie oscillazioni e con un’impennata tra il 2011 ed il 2012, arriva nel gennaio 2013 al suo massimo storico (33,5%). A partire da quella data il trend sembra essere in diminuzione. Detto ciò si pongono una serie di interrogativi: il coefficiente di Gini, strettamente legato alle difficoltà delle famiglie, diminuirà, oppure aumenterà? In che misura la permanenza nell’eurozona ci porterà cambiamenti positivi, soprattutto alla luce delle politiche di austerità che Bruxelles e Berlino ci impongono?
Fonte:“ Vincitori e perdenti nel mondo della Globalizzazione” pag. 77-78, collana Le sfide dell’economia, Milano, 2016 Fonte Fonte
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La vittoria di Donald Trump è stata caratterizzata, durante tutta la campagna elettorale, da una massiccio attacco mediatico contro il Tycoon, che non ha solo coinvolto gli Usa ma anche la stampa internazionale, italiana compresa; si è riproposto quello che era accaduto con la Brexit: il bene era solo da una parte, cioè quella della Clinton. Ricordiamo tutti che, alcuni giorni prima delle votazioni, il New York Times pubblicava un irrealistico sondaggio nel quale la candidata democratica aveva l’85% delle possibilità di vittoria; credo abbiamo assistito alla manifestazione di una stampa d’oltreoceano quasi al limite con la propaganda di regime. Jacques Sapir, economista francese Direttore della École des Hautes Études en Sciences Sociales in Parigi e capo del Centre d’Étude des Modes d’Industrialisation, considera i media Usa “fuori dal mondo” e responsabili di una campagna isterica a sostegno di Hillary Clinton, vista come il candidato della finanza; i suoi legami con le grandi banche d’affari di Wall Street – tra cui Goldman Sachs – erano ben noti. Inoltre le politiche interventiste e avventuriste in politica estera hanno contribuito a spaventare una parte dell’opinione pubblica. Riguardo il vincitore delle elezioni, Jacques Sapir oltre ad evidenziare l’intenzione di Trump di lanciare grandi programmi di investimenti pubblici, osserva: “è nelle relazioni internazionali che le conseguenze delle elezioni di Donald Trump segneranno gradualmente il più grande cambiamento. Il presidente neo-eletto non ha fatto segreto della sua volontà di migliorare le relazioni degli Stati Uniti con la Russia, di porre fine alla sovra-estensione dell’apparato militare degli Stati Uniti, di tornare a una visione più realistica del commercio internazionale, lontana dal dogma del libero scambio. Non sarà più il momento dei grandi trattati internazionali, come il TTIP o il CETA. Torna il protezionismo e bisognerà prenderne atto se si vuole sfruttare al massimo e mettere in atto questa “de-globalizzazione” ragionata, che io ho auspicato e che oggi sembra inevitabile.” E ritornando alla questione dei rapporti con la Russia: ” Donald Trump offre una nuova speranza per le relazioni con la Russia, e che l’atteggiamento aggressivo adottato da Washington, sia in Ucraina sia in Siria, non sarà mantenuto. Anche questo è un aspetto positivo di questa elezione. Speriamo che questo sia capito anche nei paesi europei che – stupidamente – hanno deciso di mantenere le sanzioni contro la Russia.” L’analisi dell’economista d’oltralpe si sofferma poi sull’Europa ed i suoi leaders: ”Naturalmente, ora si cercherà di declamare nuovamente l’inno dell’Europa federale e di riattizzare i fuochi morenti dell’integrazione europea. Ma le divisioni tra gli stati dell’UE non spariranno per magia. Gli interessi di questi stati resteranno quello che sono, opposti a qualsiasi integrazione. Prima o poi bisognerà decidersi a trarne le conseguenze, e tornare a una politica delle Nazioni, che non esclude certo, tra queste Nazioni, cooperazione e amicizia. Rifiutandosi di farlo, i leader europeisti corrono il rischio di aggravare la rabbia che cova anche nell’Unione Europea. Le negazioni della democrazia sono state troppo numerose, troppo sistematiche. Questi leader corrono il rischio, su loro scala e nelle loro condizioni, di fare la fine di Hillary Clinton.” Avverte però Antonino Galloni, economista: “sarebbe ingenuo credere che la grande finanza registri sconfitte e si ritiri in buon ordine. Anzi, essa è pronta e agguerrita per riorganizzarsi a sfruttare qualsiasi cambiamento. Soprattutto se quest’ultimo sarà generico e generativo di ulteriore confusione. La grande finanza cresce nel conflitto che essa stessa genera e nella confusione che deriva dalla consapevolezza della necessità di un cambiamento senza un piano preciso e realizzabile. Per questo la priorità è il progetto, il programma, il piano, non le divisioni settarie. Dopo il referendum del 4 dicembre, dove dovrebbe vincere il NO, occorrerà riunire le forze democratiche attorno al programma di un nuovo modello economico e sociale sostenibile, responsabile, capace di ridurre le ineguaglianze.” Auguriamoci da una parte che Trump attui una politica estera di distensione ed una politica economica più realistica e che punti ad una de-globalizzazione, dall’altra che le forze democratiche del nostro Paese convergano su un nuovo modello sociale ed economico sostenibile, solo il tempo ci consentirà di vedere, se ciò accadrà. Fonte Fonte Voglio fare delle considerazioni riguardo il sisma che ha colpito la Valnerina, nelle località di Norcia, Visso e Castelsant’Angelo sul Nera, che ha sconvolto l’esistenze delle loro popolazioni, dove oltre alla distruzione degli edifici, la furia della natura non ha risparmiato le diverse chiese della val Castoriana attigua alla Val Nerina che ogni estate visitavo, fin da bambino. La facciata dell’Abbazia di S. Eutizio di Preci, con lo splendido rosone, non c’è più; la chiesa della Madonna delle Grazie a Campi Alto è sventrata; quella di S. Andrea sempre a Campi Alto è a rischio crollo da un momento all’altro, la chiesa di San Salvatore a Campi basso è distrutta; stessa sorte per la bella chiesa della Madonna Bianca ad Ancarano; altre chiese della parrocchia dell’Abbazia di S. Eutizio sono lesionate gravemente. In sostanza, nelle Valli Castoriana e Campiana non c’è più una chiesa agibile, da ultimo la chiesa di San Benedetto a Norcia, tutti questi edifici di culto di epoca romanica sono attestati a partire dal sec XII. Come mai non si è provveduto alla loro messa in sicurezza, essendo i comuni di Preci e Norcia, nei cui territori ricadono, inseriti per decreto tra i comuni del c.d. cratere del sisma di Amatrice dell’Agosto scorso? Cosa ha fatto la soprintendenza di quei territori, perché non ha agito preventivamente? Un’ incuria che ha fatto perdere, molto probabilmente per sempre, oltre che i rosoni anche i preziosi affreschi posti all’interno delle chiese, qualcuno dovrà rispondere non solo disciplinarmente con la rimozione dagli incarichi, ma anche di fronte alla magistratura, ministro Franceschini compreso. Il vescovo dell’arcidiocesi di Spoleto – Norcia Renato Boccardo, persona che non mi ha mai fatto simpatia per il suo modo di fare, stavolta ha pronunciato parole che condivido pienamente, in una intervista al Fatto Quotidianodel 30 Ottobre scorso: “Se si fosse realizzato un puntellamento, le chiese non sarebbero state danneggiate così gravemente. Credo che la responsabilità sia anche del governo: il decreto legge post sisma prevede che i Beni culturali possano essere messi in sicurezza solo se minacciano l’incolumità pubblica: una follia”.
In previsione della consultazione elettorale riguardo il referendum sulla riforma della Costituzione italiana, vi sono numerosi dibattiti che cercano di spiegare le ragioni del si e quelle del no e diversi sono gli schieramenti, sia da una parte che dall’altra, come ad esempio l’Ugl che si è giustamente schierata per il no. In questo panorama non sempre però si riescono a cogliere le profonde motivazioni per le quali si deve cambiare la nostra costituzione, nel senso: è un’idea tutta italiana? Oppure qualcun altro ci ha chiesto con “insistenza” di cambiarla e perché? Riporto uno stralcio di quello che la JP Morgan, banca d’affari americana, ha richiesto, con una famosa lettera nel 2013, all’Europa o meglio agli stati membri riguardo le rispettive carte fondamentali: “I problemi economici dell’Europa sono dovuti al fatto che i sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alle cadute delle dittature, e sono rimaste segnate da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste … I sistemi politici del Sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, tecniche di costruzione del consenso basate sul clientelismo, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi” Secondo Guglielmo Forges Davanzati, professore di Economia Politica all’Università del Salento, si tratta di un tentativo di riforma che, se avrà successo, ridisegnerà in modo significativo i rapporti fra Stato e mercato nell’economia italiana . Afferma inoltre Forges Davanzati che: “alcuni fatti ci portano a pensare che la riforma della Costituzione italiana si renda necessaria come scambio politico fra questo Governo e la finanza internazionale” I fatti che suffragano il pensiero del Forges Davanzati sono da lui esposti così: “Nel 2013, J.P.Morgan pubblica un rapporto nel quale invita il Governo italiano a modificare la Costituzione vigente perché contiene “troppi elementi di socialismo”. In particolare, J.P.Morgan insiste sulla inopportunità di tenere in vita una Carta Costituzionale di matrice novecentesca, nella quale i valori fondanti riguardano la tutela dei diritti sociali, il fondamentale ruolo attribuito allo Stato nella programmazione economica, il richiamo alla democrazia economica. Per la finanza sovranazionale, la Costituzione italiana è da modificare radicalmente, : l’Italia diventa, per così dire, un laboratorio per sperimentare dettati costituzionali adeguati al XXI secolo, ovvero coerenti e funzionali ai processi detti di finanziarizzazione.” Inoltre: “I rapporti fra Renzi e autorevoli esponenti di J.P.Morgan, in particolare con Jamie Dimon, sono ampiamente documentati ed è noto che attengono al salvataggio di alcune banche italiane, Monte dei Paschi di Siena innanzitutto, per evitare effetti di contagio sull’intero sistema finanziario italiano. J.P. Morgan, allo stato dei fatti, è interessata a ricapitalizzare il sistema bancario italiano, in particolare il Monte dei Paschi di Siena. La spesa sarebbe irrisoria, data l’enorme disponibilità finanziaria di J.P. Morgan, probabilmente si riuscirebbe anche a trarne profitto. Ma a condizione che il Governo italiano proceda a fare le “riforme” indicate.” Conclude Forges Davanzati affermando che se la sua ricostruzione risultasse veritiera la riforma Renzi costituirebbe uno scambio politico fra Governo italiano e finanza internazionale. Ma sempre secondo il professore la modifica dell’art.81, già fatta due anni fa e mantenuta nel nuovo testo, di fatto stabilisce che le politiche di sostegno della domanda anche solo in funzione anti-ciclica (l’aumento della spesa pubblica in fasi recessive) sono incostituzionali viene così garantita una particolare teoria economica, quella di impronta liberista, che si fonda sulla convinzione che la spesa pubblica sia solo fonte di sprechi e che in fasi recessive occorre semmai ridurre la spesa pubblica, attuando così la c.d. austerità espansiva sperimentata in Europa ed in Italia. Inoltre per ciò che concerne il Cnel: “pensato come fondamentale organo consultivo per le attività di programmazione economica che la costituzione vigente assegna allo Stato … la sua abolizione sancisce la convinzione che lo Stato debba rinunciare a programmare l’attività economica” “La scommessa governativa – rivedere la Costituzione per attrarre investimenti – appare dunque molto ragionevolmente perdente, anche perché, considerando la recente bocciatura del nuovo testo da parte della finanza sovranazionale (attraverso il Financial Times), la riforma è troppo confusa per essere compresa da investitori esteri e non è neppure soddisfacente per chi l’ha commissionata” Di fronte all’analisi dell’economista, l’augurio è che il cittadino italiano sia consapevole che dietro la riforma della costituzione vi sono potenti elites economiche internazionali, che lungi dall’avere a cuore il benessere del singolo, intendono realizzare esclusivamente la brama dei loro profitti. Fonte 1 Fonte 2 |
AutoreLuca Bellini Categorie |